Dal serial killer solitario ai "compagni di merende": nascita di un'ipotesi giudiziaria


di Enrico Manieri – Henry62

Tutta la prima fase dell'inchiesta giudiziaria sui delitti seriali di Firenze traeva fondamento da un assunto più volte enunciato, nel corso degli anni, dai diversi consulenti chiamati dalla Procura di Firenze ad esprimere un parere professionale sull'autore di questa serie di atroci delitti: l'assassino è uno solo e colpisce per motivi abbietti.

Così si esprimevano i tecnici dell'equipe criminologica, coordinata dal professor De Fazio, nella loro relazione peritale fatta dopo il duplice omicidio di Vicchio del 1984:

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"...l'analisi seriale dei singoli episodi delittuosi ha progressivamente rafforzato l'ipotesi che tutti gli omicidi siano stati commessi dalla stessa persona, il cui modus operandi ha subito, negli anni, una sensibile evoluzione..."

"L'analisi delle dinamiche materiali dei delitti porta ad avallare l'azione di una stessa persona e ad escludere il concorso di complici."

"... sembra di poter affermare, con criteri di grande probabilità sino al limite della certezza pratica, che le lesioni genitali riscontrate in tre casi vanno attribuite ad uno stesso autore, certamente molto abile nell'uso dello strumento da punta e taglio ma non necessariamente "esperto" in tecniche settorie o chirurgiche. [...] si può affermare che le analogie riscontrate quanto alla forma, al perimetro, alla profondità ed all'area delle tre lesioni, possono valere a documentare l'ipotesi iniziale che l'autore dei delitti sia sempre la stessa persona."

e ancora:

"Anche relativamente all'uso dell'arma bianca emergono dunque elementi comuni ai vari casi, tali da suggerire la presenza di analogie caratteristiche di strumento e d'uso, difficilmente riscontrabili nell'ipotesi di una esecuzione da parte di persone diverse."

"In definitiva, l'analisi unitaria dei dati criminalistici e medico-legali che caratterizzano i singoli episodi delittuosi fornisce elementi utili per una valutazione globale della dinamica materiale dei delitti, che orientano verso una stessa persona ( di sesso maschile, destrimane, altezza 180 cm o oltre, robusto, agile, discreto sparatore, abituato all'uso di strumenti da taglio, scaltro, abile, freddo nell'azione delittuosa, capace di far tesoro delle esperienze precedenti e di perfezionare l'opera delittuosa)."

"Appare infatti evidente dalla modalità di esposizione dell'analisi dei casi e dalle considerazioni sin qui esposte che riteniamo non sia possibile che questi delitti sessuali siano stati commessi da più persone ..."
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Non si tratta quindi di una opinione espressa in modo superficiale, ma di un parere professionale collegiale, frutto del lavoro di tre esperti accademici, che, analizzate le prove, trassero le loro conclusioni.

Ad analoghe conclusioni giunsero anche gli autorevoli esperti americani dell'Unità di Scienze Comportamentali Forensi del F.B.I. di Quantico, chiamati a redigere un profilo dell'omicida dalle autorità italiane il 30 giugno 1989:

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"Questi otto attacchi sono stati perpetrati, nell’opinione degli analisti che hanno esaminato il materiale inviato, dal medesimo aggressore, che ha agito da solo.
Gli attacchi stessi sono classificati come “lust murders”, “assassinii per libidine”.
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Per tanti anni si era quindi ipotizzato e cercato un unico assassino, battezzato dalla stampa il Mostro di Firenze; la stessa pubblica accusa aveva impostato il processo contro Pietro Pacciani documentando i comportamenti bestiali del violento contadino, già condannato per omicidio nel 1951 e quindi per la violenza sulle proprie figlie, per dimostrarne la compatibilità col tipo d'autore che veniva delineato nelle perizie degli esperti.
A dire il vero l'esuberanza, per non dire la vera e propria irruenza, sessuale di Pacciani aveva poco a che spartire con la descrizione di un omicida impotente o iposessuato che usciva dai profili, ma questo è un altro discorso.


Quando furono rese pubbliche le motivazioni della sentenza del processo di primo grado contro Pietro Pacciani, fu una sorpresa per tutti leggere nel documento l'ipotesi di esistenza di complici.
Inutile dire che le motivazioni furono oggetto di attenta analisi sia da parte della difesa dell'imputato, che si accingeva a preparare il ricorso in appello contro la condanna ai sette duplici ergastoli, che della pubblica accusa, legata all'ipotesi del serial killer solitario.

I giudici della Corte d'Assise di Firenze avevano individuato, di fatto, un nuovo indirizzo per le indagini, esprimendo una loro ipotesi del tutto nuova rispetto a quanto era stato fino ad allora presentato nel corso delle indagini e del successivo processo.

Per capire l'impatto innovativo di tale ipotesi, è necessario ricordare che il processo contro Pietro Pacciani fu un processo indiziario, cioè l'accusa non riuscì a produrre in aula alcuna prova concreta ed incontrovertibile della colpevolezza di Pacciani negli omicidi, ma solo indizi, spesso fra loro non collegati, che portavano, secondo l'intenzione del PM, verso una responsabilità negli omicidi del contadino del Mugello.
La sentenza di condanna in primo grado arrivò per Pacciani perché la giuria maturò, evidentemente, un proprio convincimento di colpevolezza dell'imputato, sebbene non suffragato da prove oggettive, convincimento che superò di fatto quanto l'accusa stessa si proponeva di dimostrare.
La presenza di complici, secondo la Corte, avrebbe potuto spiegare quegli aspetti dei delitti destinati a rimanere oscuri se si fosse rimasti ancorati all'ipotesi del serial killer unico.

Pacciani, secondo i giudici, poteva aver quindi goduto della complicità e della connivenza omertosa di altre persone, che lo avrebbero aiutato nel compiere gli omicidi, anche senza aver avuto un ruolo diretto nell'azione omicidiaria.
Se confermata dalle indagini, questa ipotesi avrebbe potuto diventare per la Procura di Firenze la chiave per una possibile conferma della sentenza di condanna nel processo d'appello, che sarebbe iniziato fra pochi mesi.

Michele Giuttari, chiamato a dirigere la Squadra Mobile della Questura di Firenze il 15 ottobre 1995, ricevette l'incarico di approfondire questa pista direttamente dal dottor Vigna:

“Dall'altro Vigna mi dà un'indicazione ben precisa, invitandomi a indirizzare le indagini sui possibili complici di Pietro Pacciani, ipotesi ventilata dai giudici nella condanna del '94”
(Giuttari, “Il mostro – anatomia di un'indagine”, pag. 16-17)

Il motivo per cui ci si orientò alla ricerca dei complici era chiaro e lo spiega lo stesso Giuttari nel suo libro:

“Certo, come uomo di legge non posso non attribuire un qualche peso alla prima sentenza che lo ha condannato, ma più di tutto mi stimola la pista appena indicatami dal procuratore e che potrebbe funzionare come quelle operazioni matematiche in cui si ricava il valore di un'incognita accertando quello di un'altra.

In altre parole, se scoprirò che Pacciani non agiva da solo ma aveva dei complici, la sua colpevolezza sarà definitivamente provata”
(Giuttari, “Il mostro – anatomia di un'indagine”, pag. 17)


Nell'ottica dell'accusa, la ricerca dei complici diventò quindi di vitale importanza, perché offriva una nuova possibilità per giungere alla conferma della condanna di Pacciani in secondo grado di giudizio.

Nel processo d'appello invece Pacciani venne assolto; il rappresentante dell'accusa ritenne di far propri i dubbi che avevo espresso in merito alla “prova regina” del processo di primo grado, cioè la cartuccia trovata nell'orto di Pacciani, presentati dagli avvocati storici di Pacciani nei motivi aggiunti d'appello che avevo contribuito a scrivere (link).

Fu una vera e propria svolta per il processo: il dottor Tony chiese quindi, al termine della sua requisitoria, una nuova perizia balistica sulla cartuccia trovata nell'orto di Pacciani o, in alternativa, l'assoluzione dell'imputato.

Alla stampa non sfuggirono i motivi per cui la pubblica accusa era giunta ad una così clamorosa richiesta finale nel processo d'appello.
Non dobbiamo dimenticare che si trattava, probabilmente, del caso più importante della storia giudiziaria italiana, seguito anche all'estero per il clamore della lunga sequenza di duplici omicidi nella città che, a ragione, é ritenuta la capitale mondiale dell'arte.


Sono ormai trascorsi tanti anni da quei fatti e non ci sono più imputati ancora in vita, per cui possiamo cercare di capire su quali basi si fondasse l'ipotesi di esistenza di complici formulata dalla Corte del processo di primo grado.

E' significativo, ai nostri fini, questo passo delle motivazioni della sentenza:

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"Un punto certamente non secondario dell'inchiesta verte sul concorso di eventuali complici nella commissione dei delitti ascritti al Pacciani [...]
Se allora sulla scena dei delitti non risalta in maniera obbiettiva l'intervento di eventuali complici [...] neppure sono emersi elementi che possano escludere in via di principio la presenza, sul luogo del delitto o in luoghi viciniori, di possibili complici di Pacciani, con funzioni di appoggio e di ausilio.
Al contrario, di tale presenza vi è una prova sicura ed inequivoca nella ricordata deposizione del teste Nesi Lorenzo (supra pag. 147 e seg.) il quale la notte dell'uccisione dei giovani francesi aveva visto sfilare davanti a sé sulla via di Faltignano, in orario che si è visto essere perfettamente compatibile con quello della commissione del duplice omicidio, la Ford Fiesta del Pacciani, il quale aveva accanto a sé un individuo che il Nesi non era stato in grado di riconoscere ma che, stante la particolare situazione di tempo e di luogo, non poteva che essere strettamente intrinseco a lui e, dunque, al crimine da poco commesso. [...]
Deve dunque concludersi che, almeno per tale ultimo episodio, vi è prova certa del fatto che il Pacciani avesse accanto a sé quella sera altra persona, quella vista dal teste Nesi Lorenzo, probabilmente ma non necessariamente la stessa vista dal teste Zanetti. [...]
In quest'ottica non è improbabile che qualche ipotetica traccia di un possibile complice possa anche desumersi da elementi induttivi sul piano logico.
Si è visto che la difesa dell'imputato ha sostenuto l'impossibilità per l'imputato di sollevare di peso e scaraventare nella scarpata il cadavere del Kraveichvili Michel: cosa che sarebbe stata certo molto più facile ed agevole se ad ausiliare il Pacciani vi fosse stata, in quel momento ed in quel luogo, altra persona a lui legata da vincoli scellerati"
(Sentenza della Corte d'Assise di Firenze, pag. 441-454 e seguenti)
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Da questa lettura si evince che, pur premettendo che non era evidente in maniera obiettiva dall'analisi delle scene dei crimini la presenza di complici, furono sostanzialmente due gli elementi fondamentali da cui la Corte trasse il proprio convincimento:

- la deposizione di Lorenzo Nesi, che disse di aver visto Pacciani all'incrocio per Chiesanuova di Via Scopeti con Via Faltignano in Romola,  alla guida di una Ford Fiesta "amarantina" la sera dell'omicidio di Scopeti;

- il fatto che il corpo del ragazzo francese ucciso nel 1985 a Scopeti fosse stato sollevato di peso e scaraventato, ma non trascinato, fra i rovi, dove verrà poi ritrovato in avanzato stato di decomposizione.


Ricordiamo allora i passi fondamentali della inusuale deposizione volontaria di Lorenzo Nesi nell'udienza del 8 giugno 1994, caratterizzata dalla variazione delle percentuali statistiche di dubbio in base al comportamento in aula dell'imputato:

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"... la sera del delitto io tornavo dalla montagna con degli amici e passai da via degli Scopeti perché la superstrada era chiusa.
Che fosse quella sera è certo perché il giorno dopo sentii il racconto del ragazzo che aveva trovato i corpi e mi dissi: «Porca miseria, son passato di lì ieri sera».
Passano gli anni, vien fuori che Pacciani è sospettato.
E io mi ricordo che quella sera, al bivio di Chiesanuova, avevo incrociato una Ford Fiesta su cui c'era il Pacciani con un'altra persona.
Erano in due, son sicuro.
Mi ricordo che pensai: «Pietro gli è andato dalla Trittrilla»


e ancora:

"Attenzione, io sono convinto come Nesi Lorenzo che era Pacciani, non l'ho detto prima perché per me sono sicuro, per il tribunale forse c'era un 20-30% di dubbio.
Ma quando Pacciani, quel giorno che ho salito quei tre scalini per venir qui a testimoniare, ha fatto finta di non conoscermi, allora mi son detto: «Lo ha fatto perché temeva che raccontassi che quella sera lo avevo visto».
Ecco, questo mi ha fatto perdere quel 20% di dubbio."
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E' fondamentale ricordare che la testimonianza del Nesi fu l'unico elemento del processo di primo grado che consentì di collocare Pacciani in prossimità di una scena del crimine dei delitti del Mostro di Firenze nel momento immediatamente vicino a quello dell'omicidio; per la Corte divenne una "prova sicura ed inequivoca" della sua presenza a Scopeti la domenica notte in cui sarebbero stati uccisi i ragazzi francesi.



A parte il fatto che sono personalmente convinto che l'omicidio di Scopeti non sia avvenuto di domenica notte (di questo parleremo in un prossimo articolo), resta comunque il fatto che questa testimonianza del Nesi è in netto contrasto con quella, ritenuta attendibile fino all'ultimo grado di giudizio, del "pentito" Lotti che disse che Pacciani e Vanni quella sera avevano parcheggiato la loro autovettura in via degli Scopeti, all'interno della piazzola in cui avvenne l'omicidio.
Se così fosse, il Nesi avrebbe dovuto incontrare la Ford Fiesta bianca del Pacciani lungo via Scopeti e non incrociarlo mentre proveniva da via Faltignano.

La deposizione di Nesi, infatti, costrinse la Corte ad ipotizzare che Pacciani non avesse lasciato l'autovettura parcheggiata sulla via degli Scopeti, cioè nella stessa strada percorsa dal Nesi, ma che si fosse avvicinato alla piazzola passando per il bosco, lasciando quindi l'autovettura dall'altra parte del bosco di Scopeti, verso via di Faltignano.
Questo percorso nel bosco, secondo la testimonianza alla Corte di un appartenente al Corpo Forestale dello Stato esperto della zona, avrebbe richiesto circa un'ora di marcia nel buio dei sentieri per tornare dalla piazzola dell'omicidio al punto in cui avrebbe potuto riprendere l'autovettura; salito in macchina, il Pacciani avrebbe percorso un tratto di strada e sarebbe quindi stato visto dal Nesi al fatidico incrocio del bivio di via Scopeti per Chiesanuova, mentre tornava verso San Casciano.


E' chiaro che le due testimonianze di Nesi e di Lotti, ritenute entrambe valide da diverse Corti, depongono per due realtà in netto contrasto fra loro e non possono essere ritenute entrambe vere, se non ricorrendo ad una serie di improbabili spostamenti in macchina del Pacciani con un complice dopo aver compiuto l'ultimo efferato delitto della serie.

Veniamo ora a valutare il secondo elemento, quello relativo allo spostamento del corpo del ragazzo francese ucciso nel 1985.

Studio da tempo la scena del crimine di Scopeti e, francamente, non so da dove possa essere nata l'idea della Corte che il corpo del ragazzo venne sollevato di peso e lanciato fra i rovi; il verbale di referto autoptico relativo al cadavere del ragazzo parla chiaramente della presenza di ferite riconducibili al trascinamento del corpo su un fianco.

C'è però un secondo aspetto, ancora più importante, che a mio parere è in palese contrasto con le affermazioni della Corte.
Dato che le evidenze della scena del crimine vengono prima di ogni ipotesi, non riesco a capacitarmi di come sia possibile parlare di un corpo sollevato di peso e scaraventato fra gli arbusti, se si osserva la postura del cadavere e il particolare delle gambe unite e distese, appoggiate ad un cespuglio.

Se il corpo fosse stato sollevato e scaraventato da due persone, si dovrebbe ipotizzare che venne probabilmente afferrato per le gambe da una persona e per le braccia dall'altra, fatto oscillare, e quindi lanciato; la zona di caduta del corpo dovrebbe quindi essere quasi parallela al bordo della piazzola da cui venne lanciato, con il corpo che assume una posizione scomposta per effetto congiunto degli ostacoli incontrati nella caduta, dell'inclinazione del terreno e della diversa mobilità di gambe e braccia rispetto al tronco, senza considerare che difficilmente gli arbusti presenti avrebbero potuto sostenere l'impatto delle gambe, cadute da una certa altezza, dato che dalle immagini si evince che i rami dei cespugli che circondano il corpo non hanno consistenza legnosa.
Invece il corpo venne trovato in posizione quasi perpendicolare al bordo della piazzola, con le braccia parzialmente allungate in direzione della piazzola, cioè in senso opposto a quello del lancio ipotizzato.


Il particolare che mi dà pero la quasi certezza che l'ipotesi della Corte sia completamente sbagliata è la posizione sovrapposta dei piedi del cadavere, schematizzata nella ricostruzione grafica che segue, elaborata a partire dal riferimento certo di un'immagine ufficiale, presente agli atti del processo (si tratta di una fotografia scattata dalla Polizia Scientifica del Gabinetto Regionale della Toscana prima della rimozione del corpo). 

Questa immagine drammatica mostra il corpo del ragazzo, parzialmente occultato fra i cespugli e i bidoni di pittura che ne nascondono la testa alla vista dalla piazzola.
Il tronco e gli arti inferiori, ben visibili nell'immagine, sono nella posizione assunta da un corpo che è stato trascinato per i piedi, mentre le gambe, si legge nei verbali, sono leggermente ruotate nel movimento e appoggiate sui cespugli (le braccia del ragazzo verranno trovate estese parzialmente sopra la testa e rivolte verso il centro della piazzola, cioè nella direzione opposta a quella di trascinamento).
Mi ha particolarmente colpito la posizione sovrapposta dei piedi, perché significativa della dinamica utilizzata per nascondere il corpo.


Può essere forse questa la posizione assunta da un corpo morto, sollevato di peso e scaraventato da due persone nella scarpata?

A mio parere tutto depone invece con maggior probabilità per il trascinamento del corpo da parte di una sola persona, che lo afferra per i piedi fra loro uniti e lo trascina in mezzo allo spazio angusto fra gli arbusti.
Le gambe furono quindi lasciate andare e si adagiarono su un cespuglio, restando così a circa 50 centimetri di altezza dal suolo in discesa, su cui invece appoggiava la parte superiore del corpo.

Nell'udienza del 3 maggio 1994 del processo di primo grado a Pacciani, depone il teste Giovanni Autorino, che in qualità di ispettore della Polizia di Stato, effettuò i rilievi sulla scena del crimine di Scopeti nel 1985.
Ad una domanda del pubblico ministero, dottor Canessa, di descrivere l'anfratto in cui vennne trovato il corpo del ragazzo francese, la risposta é la seguente:

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Autorino: L’anfratto, diciamo, non è un anfratto naturale ma senz'altro prodotto da chi, passando, ha fatto sì che i rami si spezzassero e si piegassero a valle della spianata.
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In un successivo scambio di domande e risposte con l'avvocato Bevacqua, difensore di Pacciani, Autorino parla ancora del corpo del ragazzo francese e dell'anfratto in cui venne trovato:

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Autorino: No, no ma lì è stato trascinato lì dentro, anche se noi non notiamo…
Bevacqua: Oh, questo volevo capire, questo! Se era stato oppure no trascinato.
Autorino: No, no ma senz'altro è stato tirato lì dentro.
Bevacqua: E allora le domando, se lei l'ha fatto, se non l'ha fatto pazienza, le domando se ci sono tracce di trascinamento o se voi avete rilevato tracce di trascinamento sul luogo, cioè erba piegata, sassi spostati…
Autorino: Allora, ho capito, sul piano sterrato non si osservano tracce di trascinamento, mentre all'interno dell'anfratto l'erba è schiacciata.
Bevacqua: Ecco. E’ schiacciata ma per il cor… per il corpo…
Autorino: È schiacciata sia per il corpo, che nelle adiacenze del corpo. Cioè è tutto stazzonato per terra.
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Se questi erano i presupposti per la Corte del processo di primo grado a Pacciani per pensare all'esistenza di complici, credo di aver dimostrato non solo che le evidenze relative alla posizione del corpo del ragazzo francese a Scopeti non suggeriscano affatto la presenza di due o più persone, ma che addirittura depongano in senso opposto per la presenza e l'azione di un'unica persona, che nascose il corpo trascinandolo per i piedi fra gli arbusti.


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